domenica 13 febbraio 2011

Quali variabili influenzano i rendimenti del mercato azionario? (Parte 3: le valutazioni)

Se i rendimenti azionari non sono spiegati nè dai tassi di crescita economica (vedi parte 1) e neanche dai livelli dei tassi d’interesse (vedi parte 2), qual è la variabile realmente importante da considerare?

La mia ipotesi è che il fattore determinante siano le valutazioni.

Per verificare questa teoria ci viene in aiuto Robert J. Shiller col suo CAPE, Cyclically-Adjusted Price-Earnings ratio. Si tratta di una versione particolare del classico Price / Earning, indicatore che misura il grado di valutazione di una società rapportandone il prezzo dell’azione agli utili che essa genera.  La difficoltà di utilizzo del P/E risiede nella scelta del denominatore, ossia nella definizione di quali utili considerare: alcuni utilizzano gli utili LTM (last 12 months, ossia gli utili riportati nelle ultime 4 trimestrali), altri gli utili dell’ultimo bilancio annuale, altri ancora la stima degli utili per l’esercizio in corso o il successivo. Si tratta di scelte che presentano un comune problema: la ciclicità dell’indicatore. Succederà, infatti, che al top del ciclo economico, con gli utili a massimo regime, un’azione sembrerà a buon mercato, mentre nel momento più nero della fase recessiva, con l’utile azzerato o addirittura negativo, la stessa azione sembrerà molto cara.

Per risolvere questo problema, Shiller applica una normalizzazione: gli utili che lui considera sono quelli medi dell’ultimo decennio. Tali utili vengono inoltre depurati dell’effetto inflazione, procedimento che viene attuato anche al numeratore dell’indice, ossia al prezzo.

Il CAPE viene calcolato non per una singola azione, ma per l’indice più rappresentativo del mercato azionario statunitense, l’S&P500.

Il CAPE è pertanto calcolato come: Real S&P500 Price / Real Normalized Earnings.

Al numeratore c’è quindi il valore dell’S&P500 a prezzi costanti (cioè al netto dell’effetto inflazione). Al denominatore troviamo,  invece, l’utile medio realizzato nell’ultimo decennio dalle aziende che compongono l’indice, anch’esso al netto dell’inflazione.

Andiamo ora a vedere se il CAPE, che rappresenta a mio parere uno degli indicatori più efficaci per misurare il livello di valutazione del mercato, è stato effettivamente in grado di spiegare i rendimenti del mercato azionario statunitense.

Prima una nota metodologica: il CAPE, così come calcolato da Shiller e pubblicato sul suo sito, è un indicatore che, se applicato nel passato, è di tipo “look ahead”, ossia si basa su dati ancora non disponibili nel momento della stima: nel calcolare il CAPE ad una certa data, Shiller considera infatti anche gli utili generati nei mesi immediatamente precedenti la stima. Questi ultimi, però, sono resi noti solo alcuni mesi dopo (es. gli utili del trimestre settembre 2010-dicembre 2010 saranno noti completamente solo in queste settimane). In tutte le elaborazioni che seguono, ho quindi provveduto a ricalcolare il CAPE usando gli utili fino a 6 mesi prima rispetto all’effettuazione della stima. La differenza rispetto alla formulazione originale è, in ogni caso, marginale.

I grafici successivi mostrano la relazione tra il CAPE dell’S&P500 misurato ad una certa data ed il rendimento annuo dell’indice rispettivamente nei successivi 3, 5, 10 e 20 anni. Ancora una volta, i dati partono dal 1927, anno a partire dal quale la serie storica dell’S&P500 è disponibile.

Fonte dati: Robert Shiller, Bloomberg.       Elaborazione: EquityScreening
 
Cosa ci dicono questi grafici? Tre elementi saltano all’occhio:
  • Esiste una relazione significativa (con un livello di confidenza statistica del 99%) tra il CAPE ed i rendimenti azionari negli anni successivi.
  • Questa relazione è negativa: a CAPE contenuti (ossia a mercati “cheap”) seguono rendimenti azionari elevati; a CAPE elevati (ossia a mercati “cari”) seguono rendimenti azionari ridotti o addirittura negativi.
  • Questa relazione diventa più forte al dilatarsi del periodo di osservazione: i diversi R2 testimoniano di come il CAPE sia in grado di “spiegare”  da solo il 25.51% dei rendimenti nei 3 anni successivi, il 34.85% di quelli a 5 anni, il 54.99% di quelli a 10 anni e addirittura il 64.38% di quelli a 20 anni.
Andiamo ora a vedere l’evoluzione storica del CAPE negli ultimi 80 anni:

Fonte dati: Robert Shiller, Bloomberg.       Elaborazione: EquityScreening


L’indicatore ha avuto oscillazioni abbastanza ampie, con momenti di sottovalutazione assoluta (inizio anni ’30 ed inizio anni ’80) e periodi di euforia irrazionale (fine anni ’20, fine anni ’90 e metà Anni 2000). La media del CAPE è stata di 17.66, mentre la mediana (meno influenzata dai livelli assurdi della bolla della New Economy) è di 16.49. Possiamo quindi definire il valore di equilibrio del CAPE intorno a 16.5.

Dove siamo oggi? Con l’ultima rilevazione intorno a 23, seppur lontani dai livelli estremi visti anche di recente, i mercati non offrono sicuramente valutazioni attraenti. Anzi, se escludiamo la fine Anni 20 e la fine anni ’90 (periodi che considero outliers, come dimostra il fatto che ad essi sono seguiti rendimenti negativi su periodi addirittura superiori al decennio), siamo su livelli che di solito hanno rappresentato top di mercato, a cui sono seguiti periodi di “sgonfiamento” delle valutazioni. 

Un ulteriore elemento di cautela: storicamente a fasi di sopravvalutazione (CAPE sopra 20) sono seguite nel giro di massimo 15 anni momenti di estrema sottovalutazione (CAPE sotto 10). Dopo il picco del 1999 questo swing completo non c’è ancora stato (il minimo di marzo 2009 ha fatto segnare un CAPE intorno a 13 che, seppur inferiore alla media, non rappresenta certo un livello di sottovalutazione assoluta). Se la storia si ripetesse anche in questo caso e rivedessimo CAPE a singola cifra nel giro dei prossimi 4-5 anni, questo vorrebbe dire ritoccare i minimi di marzo 2009.

Nel grafico seguente mettiamo alla prova il CAPE: effettuiamo infatti un confronto dal 1927 ad oggi tra il rendimento a 10 anni dell’S&P500 stimato sulla base dell’ultimo CAPE disponibile all’inizio di ogni decennio (la stima è effettuata utilizzando i coefficienti di regressione lineare indicati nei grafici precedenti) ed il rendimento effettivo dell’S&P500 nel decennio successivo.
  
 Fonte dati: Robert Shiller, Bloomberg.       Elaborazione: EquityScreening
 E’ evidente che, quantunque non perfetta, la stima operata  tramite il CAPE risulta abbastanza accurata (la correlazione tra la serie dei rendimenti stimati e quella dei rendimenti reali è del 74.2%). La linea rossa si ferma ovviamente al 2001 che rappresenta la data di partenza dell’ultimo decennio di rendimenti reali disponibile. La linea blu invece prosegue e ci dà un’indicazione di massima del rendimento annuo che possiamo attualmente stimare per il prossimo decennio sulla base del CAPE, pari a circa il 7%. Tale rendimento può sembrare allettante, ma va tenuto in considerazione il fatto che, essendo al di sotto della media storica, la remunerazione attesa non bilancia adeguatamente il rischio che ci si va ad assumere. I mercati azionari, infatti, molto raramente (per non dire mai) si muovono in maniera graduale e costante verso un determinato target di rendimento, specie quando partono da valutazioni elevate: un 7% annuo su un orizzonte di 10 anni potrebbe essere, per assurdo, il frutto di 2 anni con una perdita cumulata del 35% a cui seguono 8 anni con un rendimento annuo medio del 15%.

Questo 7% annuo è peraltro superiore alla stima effettuata da John Hussman, che utilizza il CAPE congiuntamente ad altri indicatori:

  Fonte: hussmanfunds.com

Secondo Hussman, il CAPE potrebbe in questo caso sovrastimare il rendimento dei prossimi anni perché gli utili che considera riflettono un livello di profit margin (cioè del rapporto utili / fatturato) che nel decennio appena trascorso è stato non solo elevatissimo, ma probabilmente irripetibile. Questo anche a causa di un utilizzo estremo della leva finanziaria da parte delle imprese (non solo bancarie) che, se da ha un lato è stato una delle concause della crisi, dall’altro ha sicuramente contribuito a gonfiare i profitti negli anni delle vacche grasse.

Qual è invece il rendimento che possiamo attenderci su un orizzonte di 5 anni? Come abbiamo visto, il CAPE è meno preciso nello stimare i rendimenti a 5 anni di quanto non lo sia su orizzonti di 10 o 20 anni. Per questo motivo, effettueremo la stima in maniera indiretta. A febbraio 1996, il CAPE prevedeva per l’S&P500 un rendimento annuo total return nel successivo ventennio pari al 5.04%. Con un indice di partenza pari a 640 punti, in assenza di dividendi la previsione era pertanto per un indice pari a circa 1710 punti a febbraio 2016. Se consideriamo i dividendi pagati dal 1996 ad oggi e quelli stimati da oggi al 2016, dobbiamo detrarre circa 450 punti. La stima per il valore dell’indice fra 5 anni è quindi di circa 1260 punti. Con un indice che alla fine di gennaio faceva segnare 1286 punti, questo implicherebbe un rendimento annuo di -0.3%. Se a questo aggiungiamo il dividend yield atteso, possiamo stimare un rendimento annuo total return dell’S&P500 nei prossimi 5 anni pari a circa il 2%. Davvero pochino.

In ogni caso, abbiamo visto che il CAPE rappresenta uno strumento molto utile per operare stime relativamente accurate sui rendimenti del mercato azionario in un orizzonte di medio-lungo termine.
Non deve essere però considerato come un indicatore perfetto: se è vero che risulta in grado di spiegare buona parte dei rendimenti su un orizzonte maggiore di 3-5 anni, risulta molto meno efficace su un orizzonte più breve. Il grafico seguente descrive infatti la relazione tra il CAPE ed i rendimenti azionari nei successivi 12 mesi.

  Fonte dati: Robert Shiller, Bloomberg.       Elaborazione: EquityScreening


Per quanto continui ad esserci una relazione negativa tra le 2 variabili (a CAPE elevati seguono rendimenti mediamente più bassi e viceversa) e per quanto questa relazione continui ad essere statisticamente significativa al 99%, la dispersione risulta sicuramente maggiore, come testimonia un R2 abbastanza ridotto (8.72%).

Mentre i rendimenti di medio-lungo termine sono spiegati in buona parte dai livelli di valutazione da cui il mercato parte, nel breve termine sono evidentemente presenti altre logiche che il CAPE, da solo, non è in grado di catturare.

Accade spesso, infatti, che il mercato, in preda all’euforia, continui a salire nonostante le valutazioni siano già parecchio elevate. D’altro canto accade anche che in situazioni di panic selling il mercato possa continuare a scendere nonostante sia giunto a livelli di valutazioni molto interessanti (tipicamente questi episodi sono più rari ed hanno durata inferiore ai primi). Per quanto tali situazioni siano destinate prima o poi a rientrare, si possono protrarre per parecchio tempo. Ecco perché nel breve periodo può essere molto pericoloso mettersi contro il trend, pur sulla base di corrette valutazioni di natura fondamentale (è la lezione che hanno imparato quanti hanno aperto posizioni short sul mercato azionario alla fine degli anni ’90 considerandolo, peraltro giustamente, estremamente sopravvalutato).

Come affermava Hussman nel 2001:
[…] Overvaluation alone does not determine market direction. When the market is able to recruit "trend uniformity" across a wide range of market internals, an overvalued market can easily become more overvalued. This is how the recent market "bubble" was able to achieve such girth. When the market is overvalued but trends are uniformly favorable, we are willing to participate. Essentially, trend uniformity means that investors are increasingly willing to take stock-market risk. It does not matter why they are willing to take more risk, or whether their concept of the world is valid. Historically, it has been fruitless to fight investors when they develop a powerful taste for risk. As Warren Buffett once said, "A group of lemmings looks like a pack of individualists compared with Wall Street when it gets a concept in its teeth."

Nel quarto ed ultimo post di questa serie, che verrà pubblicato nei prossimi giorni, andremo a dedinire e back-testare una semplice strategia operativa che si basa sul CAPE ma cerca di correggerne i limiti appena evidenziati.

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